Ralph Waldo Emerson

Natura (1844)


(Nature)





Questo mondo rotondo è bello a vedersi,
nove volte di mistero fasciato;
e benché non sappiano i veggenti, imbarazzati,
svelare il segreto del suo cuore operoso,
tu fa' battere il tuo con quel di Natura,
e ti sarà tutto chiaro da un capo all'altro.
Lo spirito che in ogni forma si tien celato
fa cenni allo spinto che più gli è affine;
della sua incandescenza risplende ogni atomo,
e allude al futuro che gli appartiene. (1)



In quasi ogni stagione dell'anno vi sono dei giorni, in questo nostro clima, nei quali il mondo sembra toccare il vertice della sua perfezione; in cui l'aria, i corpi celesti, la terra compongono una sola armonia, quasi che la natura volesse mostrarsi indulgente verso tutto ciò che da essa è nato; giorni in cui, in questi più grigi luoghi settentrionali del pianeta, nulla abbiamo a desiderare di quanto così spesso ci è stato raccontato di altre più felici latitudini, e anche noi possiamo goderci le soleggiate ore della Florida o di Cuba; giorni in cui tutto ciò che vive dà segni di un suo tranquillo appagamento e il bestiame che se ne sta placidamente sdraiato sembra che rumini grandi e solenni pensieri. Con un po' più di certezza, tali giorni alcionii (2) possiamo aspettarceli in quel terso periodo d'ottobre che chiamiamo «estate indiana». (3) Il giorno, lungo oltre misura, sonnecchia sulle ampie colline, nel tepore dei campi estesi. Aver vissuto quelle prolungate ore di sole è già un'esperienza di longevità. I luoghi più solitari non sembrano così soli. Davanti alle soglie della foresta, il frastornato uomo di città è messo in condizione di metter da parte i suoi cittadineschi criteri di ciò che è grande e di ciò che è piccolo, di ciò che è saggio e di ciò che è sciocco. E la consunta bisaccia delle consuetudini scivola giù dalle spalle non appena egli s'inoltra dentro questi recinti. Vi è qui come una sacralità che mette in imbarazzo le nostre religioni e una verità che potrebbe discreditare i nostri più acclamati eroi. Qui riscopriamo come la natura sia la realtà che fa rimpicciolare, al confronto, ogni altra realtà, e come essa giudichi simile a un dio ogni uomo che venga a lei. Siamo sgusciati via dalle nostre chiuse, affollate dimore, nella notte e al mattino, ed eccoci ad ammirare da quali maestose bellezze siamo quotidianamente circondati e fasciati. Come vorremmo sfuggire alle tante barriere che ce le rendono intanto, almeno in parte, inoperanti, come vorremmo sfuggire a sofismi e riserve mentali, come vorremmo compenetrarci nella natura! La temperata luce dei boschi è come un perpetuo mattino, è stimolante, eroica. S'insinuano dentro di noi le antiche magie di questi luoghi. I fusti dei pini, degli abeti, delle querce brillano come ferro davanti all'occhio infiammato. E i muti alberi cominciano a persuaderci che meglio sarebbe vivere con loro e abbandonare questa nostra vita fatta di solenni futilità. Qui non vi è storia, non vi è chiesa o stato che si sovrappongano, come un'interpolazione, al cielo divino e al grande anno immortale. Oh, come agevolmente abbiamo potuto inoltrarci nel paesaggio che si apriva, assorbiti da nuove immagini e da pensieri in incalzante successione fra loro, finché a poco a poco il ricordo stesso della casa era quasi svanito dalla nostra mente, e ogni ricordanza si era dissolta nel predominio assoluto del presente, mentre eravamo condotti in trionfo dalla natura!

Questi incanti sono un balsamo, ci trasmettono un senso di sobrietà, ci ridanno salute. Ecco dei piaceri semplici, benefici, genuini. Ritorniamo a noi stessi, stringiamo amicizia con quella «materia» che l'ambizioso chiacchiericcio delle scuole filosofiche vorrebbe invece indurci a disprezzare. Non possiamo, al contrario, separarcene; l'anima ama la sua vecchia dimora: quello che è l'acqua per la nostra sete, sono la roccia e la terra per i nostri occhi, per le nostre mani e i nostri piedi. È acqua allo stato solido, è fiamma congelata: quale sanità, quale affinità! Sempre un vecchio amico, sempre un caro amico e fratello sopraggiungono, mentre noi con sussiego ci intratteniamo a cianciare con degli estranei, con le loro oneste facce, e si prendono con noi una ferma libertà e ci fanno vergognare delle nostre idiozie. Le città non concedono spazio sufficiente ai sensi umani. E sia di giorno 'che di notte ci tocca andar fuori a nutrirci gli occhi di orizzonti e a richiedere la nostra parte di spazio, così come abbiamo bisogno dell'acqua per lavarci. Vi è tutta una graduatoria di influenze naturali, da questo potere che ha la natura di tenerci in quarantena, fino a quei più preziosi e cospicui doni che essa ha in serbo per la nostra immaginazione e per la nostra anima. C'è il secchio pieno di fresca acqua di fonte, c'è il bel fuoco crepitante di rami di bosco verso il quale il viandante intirizzito corre a rifugiarsi, e vi è la sublime morale dell'autunno e del meriggio. Ci rannicchiamo nella natura, simili a parassiti ricaviamo dalle sue radici e dai suoi chicchi il nostro sostentamento e riceviamo sguardi dalle celesti sfere, che ci invitano alla solitudine e ci preannunciano lontani futuri eventi. L'azzurro zenit è il punto in cui s'incontrano immaginazione e realtà. Io credo che se fossimo rapiti in quello che sogniamo che sia il paradiso e potessimo conversare con Gabriele e con Uriele, (4) l'altissimo cielo sarebbe tutto ciò che resterebbe del nostro arredamento.

Non è mai per noi un giorno del tutto profano quello in cui si sia prestato attenzione ad un qualche oggetto naturale. Il cadere dei fiocchi nevosi in un'aria immobile che conserva a ogni cristallo la sua perfetta forma; il turbinio della tormenta sopra un liscio specchio d'acqua o su una pianura; l'ondeggiare di un campo di segale; il mimico fluttuare di un campo di houstonia, con i minuscoli fiori che biancheggiano e s'increspano dinanzi ai nostri occhi; il rispecchiarsi di alberi e fiori in laghi cristallini; il musicale, vaporoso e odoroso vento del sud, che fa di ogni albero un'arpa; lo scoppiettio e il cigolio, tra le fiamme, dei rami d'abete o dei tronchi di pino che, nel soggiorno, dispensano gloria a volti e pareti: ecco la musica e le immagini della religione più antica che vi sia al mondo. La casa in cui vivo è posta su un tratto di terreno un po' basso, con vista limitata davanti a me, e all'estremità dell'abitato. Ma in compagnia di un amico, io spesso mi reco sulle rive del nostro modesto fiume, (5) e con un sol colpo di remo mi distacco dalle beghe e dalle personalità del luogo: sì, e dall'intero mondo di piccoli centri e di personalità, e mi trasferisco in un delicato reame di tramonti e di pleniluni, troppo splendido, forse, per quell'essere contaminato che è l'uom6, e perché vi si possa accedere senza una qualche forma di noviziato e di accettazione. Penetriamo, corporeamente, in quest'incredibile bellezza; affondiamo le nostre mani in questa variegata dimensione, mentre i nostri occhi si bagnano di queste luci e di queste forme. Una vacanza, una villeggiatura, (6) una regale allegrezza, la più superba e la più lieta festa che bellezza, valore e buongusto abbiano mai approntato, prende così inizio all'istante. Queste nuvole nel tramonto, queste stelle timidamente emergenti, con quel loro discreto e ineffabile occhieggiare, sono lì ad annunciarla e a presentarla. E ricevo ammaestramenti circa la pochezza delle nostre risorse inventive, e sulla bruttezza e il grigiore di città e palazzi. Arte e lusso sanno già da un pezzo che devono operare come accrescimento e sviluppo di questa originaria bellezza. E ricevo anche un bel po' di istruzioni per il ritorno. D'ora in avanti non sarò più tanto accondiscendente. Non potrò più tornare a baloccarmi. Sono ora maturato, sono diventato più fine ed esigente. Non potrò più vivere senza uno stile, senza eleganza: ma sarà un uomo di campagna il mio maestro di cerimonie. Si, lui, che conosce tante cose, che conosce quali virtù e quali dolcezze siano nella terra, nelle acque, nelle piante, nei cieli, e che sa come arrivare a tali incantamenti, lui è il vero uomo ricco e regale. E soltanto nella misura in cui gli stessi signori del mondo si degnano di chiamare la natura in loro aiuto, riescono a toccare il vertice della magnificenza. E questo il significato dei loro giardini pensili, delle loro ville e case-giardino, e isole e parchi e riserve di caccia: al fine, si direbbe, di puntellare le loro carenti personalità con questi robusti accessori. Né mi stupisco poi se, con tali pericolosi ausiliari, gli interessi terrieri assumono quel loro così prevalente peso nella vita pubblica. Ecco quello che, in realtà, ci attira e ci seduce: non i re, non i grandi palazzi, non gli uomini e le donne, ma queste tenere e poetiche stelle, eloquenti di segrete promesse. Abbiamo sentito ciò che ci diceva l'uomo ricco, sappiamo ora tutto della sua villa, del suo boschetto, dei suoi vini e della sua brigata di amici: ma il vero allettamento, il motivo vero dell'invito vennero a noi dall'incanto di queste stelle. Nel loro mite ammiccare io leggo tutto ciò che l'umanità si è sforzata di realizzare: a Versailles, a Pafo, a Ctesifonte. (7) E non è anche, a ben pensarci, per la magia di un orizzonte e per un azzurro sfondo di cielo che si salvano le nostre stesse opere d'arte? Altrimenti, sarebbero inezie. Quando i ricchi obbligano i poveri all'ossequio e al servilismo, dovrebbero considerare gli effetti che essi, ritenuti i supremi possessori della natura, provocano su quelle menti immaginose. Ah, se i ricchi fossero ricchi come i poveri immaginano che siano i ricchi! Un ragazzo sente, a sera, suonare una banda musicale, e ha subito dinanzi a sé, come in carne e ossa, re, regine e famosi cavalieri. Ode l'eco di un corno in una zona collinosa (su per le Notch Mountains, per esempio), (8) che di quelle alture fa un'armoniosa arpa eolica, e immediatamente questi suoni sovrannaturali gli restituiscono tutta la mitologia dei Greci, e Apollo e Diana, e divini cacciatori e cacciatrici. Tanto può essere eccelsa e di così maestosa bellezza una nota musicale! Al giovane poeta povero la società appare così come circonfusa di una luce favolosa. Egli è leale; rispetta il ricco: t ricchi sono tali per compiacere alla sua immaginazione, che sarebbe ben povera se quei ricchi non esistessero! Il fatto che essi posseggano boschetti cinti da alti steccati che chiamano parchi; che vivano in sale ampie e sfarzose quali mai egli ha veduto, e che si rechino in carrozza in località termali e in lontane città, frequentando la compagnia di persone eleganti, costituisce la base da cui egli attinge per delineare possedimenti ancor più favolosi, di fronte ai quali quelli reali non sono che misere baracche. La Musa per prima inganna il suo pupillo, e aggiunge ai doni di quella ricchezza aristocratica una non so quale irradiazione che sembra provenire dall'aria stessa, dalle nubi, dalle foreste lungo il bordo della strada - quasi come un particolare alto favore concesso a quei patrizi da genietti patrizi, da una sorta di aristocrazia che operi dentro la natura, da un potente principe dell'aria.

Non sempre, certo, si può riscontrare una tale sensibilità morale che così facilmente crea nuovi Eden e valli di Tempe, (9) ma c e pur sempre, non lontano, un buon paesaggio. Tali incanti potremmo trovarli senza bisogno di andare a visitare il lago di Como o l'isola di Madeira. Siamo portati a esagerare le attrattive di questo o quel luogo. In ogni paesaggio vi è quel massimo di stupore rappresentato dall'incontro di cielo e terra, e ciò può essere osservato sia dall'alto della prima collinetta che s'incontra che dalle vette degli Alleghany. Di notte, le stelle pendono sulla più oscura radura con la stessa spiritata bellezza che diffondono sulla Campagna romana (10) o sui marmorei deserti d'Egitto. Le nuvole vaganti per il cielo e i colori del mattino e della sera trasfigurano i più comuni aceri e ontani. Vi è minima differenza tra un paesaggio e l'altro; ma grande è la differenza tra un osservatore e l'altro. Nulla è più straordinario, in un qualsiasi paesaggio, che la stessa necessità d'essere bello cui sottostà ogni paesaggio. La natura non si fa mai sorprendere in vestaglia. La bellezza irrompe dappertutto.
Ma sarebbe ben facile conquistare la simpatia dei lettori insistendo su un tale argomento topico che i dotti definirono come proprio della natura naturata, vale a dire natura «passiva». Né se ne può direttamente parlare senza qualche esagerazione. Altrettanto facile è intavolare, in una varia compagnia, quello che vien definito «il discorso religioso». Una persona suscettibile non ama però indulgervi troppo, e adduce la scusa di un qualche suo più ordinario impegno: deve andare a vedere un suo lotto di bosco, o a sorvegliare il raccolto o a ritirare una pianta o un minerale che gli hanno spedito da una remota località, o perché ha con sé un fucile da caccia o una canna da pesca. Io penso che un tale pudore abbia le sue buone ragioni. Il dilettantismo verso la natura è sempre sterile e vacuo. Il bellimbusto di campagna non è migliore del suo collega di Broadway. Gli uomini sono per natura cacciatori, e vorrebbero sempre saperne di più di vita e arti primitive, e io sono dell'opinione che informatori come gli spaccalegna o gli Indiani potrebbero fornire dati di fatto al riguardo e prendere posto nei più sontuosi salotti e nei più ristretti cenacoli; eppure, di solito, o perché affrontiamo con una certa dose di goffaggine un tale delicato argomento, o per qualche altra ragione, non appena s'incomincia a scrivere della natura, si cade subito in forme eufuistiche. (11) La frivolezza è il tributo che meno si addice a Pan, il quale dovrebbe esser presentato, nella mitologia, come il più temperante fra gli dei. Non vorrei, a mia volta, apparire frivolo di fronte al riserbo e alle cautele dei nostri tempi, ma non posso fare a meno di ritornare spesso su questo vecchio argomento. Il gran numero di false chiese testimonia a favore della vera religione. Letteratura, arte, scienza sono l'omaggio che l'uomo rende a questo insondato segreto, di fronte al quale nessuna persona ragionevole può affettare indifferenza o disinteresse. La natura è amata da tutto quanto vi è di meglio in noi. Essa è amata come la città di Dio, benché - o forse proprio per questo - non vi sia nessun cittadino. Il tramonto è dissimile da tutto quanto è al di sotto di esso: richiede vere presenze umane. E la bellezza della natura appare sempre un po' irreale e sorniona finché il paesaggio non contenga figure umane che siano di pari valore. Se vi fossero uomini perfetti non esisterebbe, anzi, questo rapimento nella natura. Se il re è nel suo palazzo, nessuno sta a guardare le pareti. È solo dopo che egli se n'è andato e la casa è piena solo di servi e di curiosi, che spostiamo lo sguardo dalla gente per trovar sollievo nelle maestose figure suggerite dai quadri e dall'architettura. Quelli che lamentano come morbosa la separazione fra la bellezza della natura e le cose che devono esser fatte, devono considerare che questo nostro andare a caccia del pittoresco è inseparabile dalla nostra protesta nei riguardi delle falsità sociali. L'uomo è caduto; la natura è sempre in piedi e fa da termometro differenziale rivelando la presenza o l'assenza di sentimento divino nell'uomo. Ed è per colpa della nostra insipienza e del nostro egoismo che ci rivolgiamo alla natura; ma quando saremo sulla via della guarigione, sarà la natura a rivolgersi a noi. Guardiamo con un senso di compunzione il ruscello che spumeggia; ma se la nostra vita scorresse con la sua giusta carica di energia, sarebbe il ruscello a sentire vergogna. La corrente dello zelo manda scintille di vero fuoco e non raggi riflessi di sole o di lùna. La natura può anche essere studiata, come il commercio, da un punto di vista d'interesse egoistico. Per l'egocentrico l'astronomia diventa astrologia; la psicologia diventa mesmerismo (12) (con l'intento magari di mostrarci dove sono andati a finire i nostri cucchiaini da tè); l'anatomia e la fisiologia diventano frenologia (13) e chiromanzia.

Ma prendendo ora tempestivo congedo e mettendo da parte quant'altro potrebbe dirsi su un tale argomento, non tralasciamo oltre di rendere omaggio alla natura «agente», alla natura naturans, che è la vivente causa dinanzi alla quale tutte le forme fuggono via come turbini di neve, essa stessa restando segreta, mentre le sue opere sono spinte davanti a lei in greggi e moltitudini (e, così, gli antichi rappresentarono la natura in figura di Proteo, il pastore), in indescrivibile varietà. Essa si manifesta negli esseri che crea partendo da particelle elementari e giungendo di trasformazione in trasformazione alle più alte simmetrie, finché perviene alla perfezione dei suoi risultati, senza scosse e balzi. Un po' di calore, cioè un po' di movimento, è tutto quanto differenzia i nudi, abbaglianti e mortalmente gelidi poli terrestri dal formicolio dei climi tropicali. E tutti i mutamenti avvengono senza strappi, in virtù delle due basilari condizioni dello spazio infinito e del tempo infinito. La geologia ci ha introdotto in una natura secolarizzata e ci ha insegnato a disfarci delle nostre misure da scuola materna e a sostituire il suo grande stile ai nostri schemi mosaici e tolemaici. Ora sappiamo quante pazienti età debbano srotolarsi prima che possano formarsi le rocce; e, poi, che la roccia si spacchi e la prima specie di licheni riesca a sbriciolare in terreno fertile il più sottile strato esterno, aprendo in tal modo la porta alle future Flora, Fauna, Cerere e Pomona. (14) E, tuttavia, quanto lontane sono ancora le trilobiti! E quanto il quadrupede! E quanto ancora incredibilmente remoto l'uomo! Tutto arriva a suo tempo, e infine ecco succedersi le stirpi umane. E un lungo cammino, dal granito all'ostrica; ancora più lungo è quello per arrivare a Platone e alla teoria dell'immortalità dell'anima. E, comunque, tutto arriva, con la stessa certezza con cui il primo atomo ha due lati.
Movimento o mutamento e identità o stasi sono il primo e il secondo segreto della natura. Movimento e Stasi. L'intero codice delle sue leggi potrebbe essere trascritto sull'unghia di un pollice o sul sigillo di un anello. La bollicina che gorgoglia alla superficie di un ruscello ci introduce nei segreti della meccanica celeste. Ogni conchiglia su una spiaggia è una chiave per arrivarci. Fate ruotare un po' d'acqua in una tazza e avrete la spiegazione di come si formarono le conchiglie più semplici; l'aggiunta di materia, anno dopo anno, porta infine alle forme più complesse; eppure, la natura è così parca, pur con tutta la sua arte, che dall'inizio alla fine dell'universo non avrà adoperato, in tutto, che un solo materiale ma un materiale con le due sue finalità per approntare tutta la sua fantomatica varietà. Combinatelo come essa vorrà, stella, sabbia, acqua, albero, uomo: si tratta sempre di un solo materiale, che rivela sempre le stesse proprietà.

La natura è sempre coerente, benché finga talvolta di contraddire le sue proprie leggi. Osserva le sue leggi, e sembra che voglia trascenderle. Essa arma ed equipaggia un animale perché trovi il suo posto e le sue possibilità di vita sulla terra, e nello stesso tempo arma ed equipaggia un altro animale per distruggere il primo. Lo spazio esiste per dividere gli esseri fra loro; ma rivestendo i fianchi di un uccello con un po' di piume, la natura gli offre una piccola onnipresenza. La direzione è sempre in avanti; ma l'artista può fare anche il cammino a ritroso, cercando i suoi materiali; e ricomincia daccapo con i primi elementi pur nello stadio più avanzato: altrimenti, tutto andrebbe in rovina. Osservando la natura nel suo operare, ci sembra di cogliere come un lampo di un sistema in transizione. Gli alberi sono la gioventù del mondo, vasi di salute e vigore; ma essi tendono continuamente verso l'alto, verso un'autocoscienza. Gli alberi sono come uomini imperfetti, e sembrano lamentarsi del loro imprigionamento, così radicati al suolo. L'animale è il novizio e l'apprendista di un ordine più avanzato. Quanto agli esseri umani, anche se giovani, appena gustano la prima goccia dalla coppa del pensiero, ne sono già contaminati; ancora incorrotti sono invece gli aceri e le felci. Ma quando saranno pervenuti a uno stato di coscienza, anch'essi imprecheranno e spergiureranno. I fiori, poi, così strettamente appartengono alla giovinezza, che noi adulti avvertiamo subito che quelle loro splendide generazioni non riguardano noi: noi abbiamo già avuto il nostro periodo, e ora i figli abbiano il loro. I fiori ci vezzeggiano, e noi siamo come dei vecchi scapoli, con la nostra ridicola tenerezza.
Le cose sono tra loro così collegate che è possibile, partendo dalle particolari proprietà di un oggetto, e a seconda dell'acutezza dell'occhio, prevedere anche quelle di un qualsiasi altro oggetto. Se avessimo occhi per vederlo, un pezzettino di pietra delle mura di una città ci attesterebbe la necessità dell'esistenza dell'uomo con la stessa certezza che ci proviene dalla città. Questa identità ci unifica tutti e riduce a zero i grandi intervalli sulla nostra scala abituale. Parliamo di deviazione dalla vita naturale come se il vivere artificiale non fosse anch'esso naturale. Il cortigiano più allisciato e arricciato possiede anche lui, nei boudoirs di un palazzo, la natura animale rude e primordiale che ha l'orso bianco, formidabile nel perseguire i suoi fini, ed è non meno collegato, pur lì in mezzo ai profumi e ai bigliettini amorosi, alle catene dell'Himalaia e al grande asse del globo. Se considerassimo quanto noi tutti apparteniamo alla natura, non avremmo tanti preconcetti riguardo alle città, come se quell'alta, tremenda o benefica forza non sapesse trovarci anche là e foggiare anche le città. La natura che fece il muratore, fece anche la casa. Possiamo facilmente sentir fin troppo parlare di influssi agresti. Il fresco e distaccato aspetto che hanno le cose naturali ce le rende invidiabili, a noi esseri irritati e irritabili dalle rosse facce, per cui pensiamo che saremmo anche noi grandi e forti se solo ci accampassimo all'aperto e ci mettessimo a mangiare radici; ma cerchiamo invece di essere uomini e non marmotte, e la quercia e l'olmo ci serviranno volentieri, anche se staremo seduti su sedie d'avorio poggiate su tappeti di seta.

Questo filo conduttore dell'identità corre attraverso le sorprese e i contrasti di ogni situazione, e caratterizza ogni legge. L'uomo porta il mondo nella propria testa, l'intera astronomia e l'intera chimica sospese in un pensiero. Poiché la storia della natura è impressa nel suo cervello, egli è perciò il profeta e lo scopritore dei suoi segreti. Tutto ciò che si conosce scientificamente in natura fu divinato dal presentimento di qualcuno, prima che fosse verificato praticamente. Un uomo non s'allaccia una scarpa senza riconoscere leggi che lo collegano alle più lontane regioni della natura: luna, albero, gas, cristallo, sono geometria consolidata e numeri. Il senso comune sa bene quel che gli appartiene, e riconosce il fatto a prima vista in un esperimento chimico. Il senso comune di Franklin, di Dalton, di Davy e di Black (15) è lo stesso senso comune che pose quei dispositivi che ora esso scopre.
Se l'identità esprime una stasi così organizzata, anche l'azione in contrario ha una sua organizzazione. Dissero gli astronomi: «Dateci della materia e un po' di movimento e noi costruiremo l'universo. Non è sufficiente avere la sola materia, dobbiamo anche avere un primo impulso, una spinta per lanciare la massa e generare l'armonia delle forze centrifughe e centripete. Appena avrete sollevato un po' la palla con la mano, vi mostreremo com'è che si sviluppò questo possente ordine delle cose». Dissero i metafisici: «Un postulato molto irragionevole, una chiara petizione di principio. Non potreste invece riuscire a conoscere la genesi della spinta, così come la sua continuità?». La natura, nel frattempo, non era stata ad aspettare la fine della discussione: bene o male, approntò l'impulso, e le sfere rotolarono. Non fu gran cosa, solo una piccola spinta, ma gli astronomi avevano ben ragione nel tenerla in tanta considerazione, dato che non c'è fine alle conseguenze di quell'atto. Quella famosa spinta primordiale si è propagata attraverso tutte le sfere del sistema e attraverso ogni atomo di ciascuna sfera, attraverso tutte le specie di esseri e attraverso la storia e le manifestazioni di ogni individuo. L'esagerazione è nel corso delle cose. La natura non manda nel mondo nessun essere, nessun uomo senza aggiungere un piccolo eccesso della stessa specifica qualità. Dato il pianeta, occorre aggiungere l'impulso; cosicché la natura aggiunse per ogni essere uno scatto di violenza di direzione sul suo particolare sentiero, una spinta per metterlo sul suo cammino; in ogni esemplare, un di più di generosità, una goccia di troppo. Senza elettricità l'aria si corromperebbe, e senza questa violenza di direzione che hanno in sé uomini e donne, senza un pizzico di ostinazione e di fanatismo non avremmo né incentivo né efficienza. Dobbiamo mirare al di sopra del segno per colpire nel segno. Ogni atto ha in sé una qualche falsità d'esagerazione. E quando, di tanto in tanto, compare un uomo austero, dall'acuto sguardo, che vede in qual modo meschino il gioco sia condotto, e rifiuta di giocare e divulga il segreto, che accade allora? L'uccello è fuggito via per sempre? Oh, no: l'accorta natura manda una nuova truppa di forme più belle, di più prestanti giovani, e con un po' più di eccesso di direzione per tenerli meglio avvinti ai loro vari scopi; li rende un po' più ostinati in quella direzione per la quale più sono adatti, e il gioco ricomincia, vorticoso, per una generazione o due ancora. Il fanciullo che se ne sta coi suoi cari trastulli, zimbello dei propri sensi, soggetto a ogni vista e a ogni suono, privo di ogni potere di confrontare e classificare le sue sensazioni, tutto dedito a un fischietto o a un legnetto colorato, a un soldatino di piombo o a una ciambella, sempre individualizzando e mai generalizzando, dilettato da ogni novità, piomba, a sera, sopraffatto dalla fatica che un tal giorno di continua graziosa follia gli ha procurato. Ma la natura ha raggiunto il suo scopo con quel riccioluto pazzerello dalle belle fossette. Essa ha dato un preciso incarico a ogni facoltà, e ha assicurato una crescita simmetrica della struttura corporea, attraverso quell'insieme di atteggiamenti e di movimenti: una finalità di primaria importanza che non potrebbe essere affidata a una cura meno perfetta della sua. E questo baluginio, questo luccichio opalino scherza in cima a ognuno dei suoi giocattoli, brilla dinanzi al suo occhio per assicurare la sua fedeltà, ed egli è ingannato per il suo bene. Anche noi siamo tenuti vivi e desti con le stesse arti. Dicano pure gli stoici quello che vogliono, ma noi non mangiamo per vivere, ma perché il cibo ha un buon sapore e l'appetito si fa sentire. La vita vegetale non si contenta di gettare dal fiore o dall'albero un seme solo, ma riempie l'aria e la terra con una prodigalità di semi, di modo che se migliaia di essi periscono, altre migliaia possano cadere e attecchire, e un centinaio arrivare a maturazione e almeno uno possa alla fine rimpiazzare il genitore. Tutte le cose rivelano questa stessa calcolata profusione. L'eccesso di timore col quale l'organismo animale è protetto tutt'intorno, quando rabbrividisce per il freddo e sussulta alla vista di un serpente o per un improvviso rumore, serve a proteggerci infine, attraverso un gran numero di infondati allarmi, da un qualche reale pericolo di fondo. L'innamorato cerca nel matrimonio una sua personale felicità, un suo compimento, senza nessun fine in prospettiva; e in quella felicità la natura nasconde il suo proprio fine, vale a dire la procreazione, la continuità della specie.

Ma questa ingegnosità con cui è fatto il mondo si travasa anche nella mente e nel carattere delle persone. Nessuno è perfettamente bilanciato; ognuno ha una vena di insania nella sua costituzione, una leggera pressione del sangue alla testa per far si che egli resti saldamente legato a un qualche particolare punto che la natura abbia preso a cuore. Le grandi cause non si svolgono mai in base al loro valore; ogni causa viene ridotta ai particolari per adeguarla alla dimensione delle parti, e la contesa è più accesa proprio sulle questioni di minore importanza. Né meno rimarchevole è la fede eccessiva che ogni uomo pone in tutto quanto egli abbia da fare o da dire. Il poeta, il profeta ripongono in ciò che essi esprimono un valore superiore a quello che gli assegna un qualsiasi loro ascoltatore, ed è per questo che ciò viene espresso. Il forte Lutero, così compiacente con se stesso, dichiara, con un'enfasi che non ammette errori, che «Dio stesso non può operare senza gli uomini saggi». Jacob Boehme e George Fox (16) tradiscono il loro egotismo nell'accanimento che mettono nei loro trattati polemici, e James Naylor permise una volta che lo si adorasse come il Cristo. (17) Ogni profeta arriva ben presto a identificarsi col proprio pensiero e a considerare sacri il suo cappello e le sue scarpe. Benché questo possa discreditarli presso la gente più giudiziosa, giova loro, però, presso tutti gli altri, poiché dà calore, incisività e diffusione alle loro parole. Anche nella vita privata esperienze del genere non sono infrequenti. Ogni giovane d'ardente indole scrive un diario, nelle cui pagine, nelle effusioni della preghiera e del pentimento, riversa la sua anima. Sono pagine, per lui, piene di fuoco e di fragranza: ed egli le legge in ginocchio nel cuore della notte e sul far del giorno; le bagna delle sue lacrime; sono sacre per lui, buone per il mondo intero, e tuttavia a stento si possono mostrare all'amico più caro. Questo è l'uomo-fanciullo appena nato dall'anima, la cui vita ancora circola nell'infante. Il cordone ombelicale non è Stato ancora reciso. Dopo che è scorso un certo tempo, egli incomincia a desiderare che l'amico sia messo a parte di questa sacra esperienza, e con esitazione e fermezza al tempo stesso gli pone le sue pagine sotto gli occhi. Ma non gli bruceranno gli occhi? L'amico, con freddezza, le sfoglia qua e là, e con facilità passa dallo scritto alla conversazione, e intanto l'altro resta colpito, stupito e offeso. Non getterà mai il sospetto su ciò che ha scritto. Giorni e notti di fervida vita, di comunione con gli angeli delle tenebre e della luce hanno inciso i loro ombrosi caratteri su quel libro macchiato di lacrime. Sospetta dell'intelligenza o del cuore dell'amico. Non vi è dunque amicizia al mondo? Non riesce ancora a credere che si possa avere un'esperienza profonda e tuttavia non saper come trasferire in letteratura quei personali sentimenti; e forse la scoperta che la saggezza ha altre lingue e altri ministri diversi da noi e che se anche ce ne stessimo in pace e tranquilli la verità troverebbe nondimeno la via per esprimersi, potrebbe raffrenare, ingiustamente, le fiamme del nostro zelo. Ognuno riesce a parlare solo nella misura in cui non avverte le sue parole come parziali e inadeguate. Certo, il suo è un discorso parziale, ma non se ne accorge finché sta lì a pronunciarlo. Non appena quell'istintività e quel particolarismo l'abbandonano, ed egli s'accorge della sua parzialità, serrerà, allora, con disgusto la bocca. Perché nessun uomo può scrivere qualcosa se non pensa che quel che sta scrivendo è, per il momento, la storia del mondo; né può far bene alcunché se non pensa che il suo è un importante lavoro. Può non esserlo affatto, ma io non devo pensare che non lo sia, altrimenti non lo farò mai con pieno mio agio.

Allo stesso modo, vi è nella natura qualcosa di beffardo, qualcosa che ci spinge sempre in avanti senza condurre in nessun luogo, qualcosa che non mantiene con noi i suoi impegni. Ogni promessa corre al di là delle sue possibilità. Viviamo in un sistema di approssimazioni. Ogni finalità è nella prospettiva di qualche altra finalità, che è a sua volta provvisoria: non vi è mai risultato netto e definitivo da nessuna parte. Siamo accampati nella natura, ma non conviviamo con essa. La fame e la sete ci portano a mangiare e a bere; ma il pane e il vino, mescolateli e cucinateli come volete, ci lasciano affamati e assetati dopo che lo stomaco s'è riempito. Lo stesso accade con le nostre arti e manifestazioni. La nostra musica, la nostra poesia, il nostro linguaggio non ci danno piene soddisfazioni, ma solo suggerimenti. La sete di ricchezza, che trasforma il nostro pianeta in un giardino, si prende gioco di chi la insegue con troppo accanimento. Qual è la finalità che si cerca? Evidentemente quella di garantire gli scopi del buonsenso e della bellezza da ogni intrusione di bruttezza e volgarità. Ma che metodo faticoso! Che apparato di mezzi per assicurarsi un po' di conversazione! Un gran palazzo di pietre e mattoni, servitori, cucina, stalle, cavalli ed equipaggi, azioni bancarie e un fascio di ipoteche; e commercio con tutto il mondo, villa in campagna e casetta in riva al fiume: e tutto questo per ottenere un po' di conversazione più elevata, nitida e spirituale! Un tale scopo non avrebbero potuto raggiungerlo anche due mendicanti sulla pubblica strada? No, tutto questo derivò proprio dagli ininterrotti sforzi da parte di quei due mendicanti per rimuovere ogni attrito dalle ruote della vita e aprirsi un'occasione. La conversazione, la forza di volontà, erano le finalità dichiarate; la ricchezza andava bene, in quanto avrebbe placato le prime necessità, servito a riparare il camino che faceva fumo, a far tacere il cigolio della porta, a permettere di riunire gli amici in una stanza riscaldata e tranquilla e a tenere i bambini e il tavolo da pranzo in stanze separate. Pensiero, virtù, bellezza erano le finalità; ma si sa bene che gli uomini di virtù e pensiero hanno anch'essi, qualche volta, il mal di testa, o i piedi bagnati, e che perderebbero del tempo prezioso in attesa che la stanza si riscaldi, nelle giornate d'inverno. Sfortunatamente, negli sforzi per rimuovere tali inconvenienti, l'attenzione principale è stata intanto deviata; gli scopi originari sono stati persi di vista, e rimuovere quell'attrito è diventato, alla fine, uno scopo per se stesso. Ecco il ridicolo in cui cadono questi ricchi; e Boston, Londra, Vienna, e i governi, in genere, del mondo, sono città e governi di ricchi, e le masse non sono masse di uomini, ma di uomini poveri, vale a dire di uomini che vorrebbero essere ricchi: e il ridicolo è nel fatto che dopo pene, sudori e furie essi non arrivano a nulla; tutto quello che si è fatto è stato per niente. Hanno fatto come uno che interrompe una conversazione per iniziare a parlare e che si sia poi dimenticato di quel che voleva dire. Dappertutto lo sguardo è colpito dall'apparenza di una società senza scopi, di nazioni senza scopi. Erano le finalità della natura così grandi e così costrittive da esigere dagli uomini quest'enorme sacrificio?
Del tutto analogo agli inganni che si ricevono in vita, vi è, come potevamo aspettarci, un effetto similare, al nostro occhio, che proviene dall'aspetto esterno della natura. Vi è nei boschi e nelle acque qualcosa che alletta e lusinga, senza che sia mai offerto, tuttavia, un immediato appagamento. Una tale delusione si avverte in ogni paesaggio. Spesso ho osservato la morbidezza e la bellezza delle nubi estive fluttuanti come piume sopra la mia testa e liete, come mi sembrava, della loro altezza e del privilegio del movimento, pur mentre apparivano non tanto come il denso drappeggio del luogo e del momento, ma piuttosto come un preludio a padiglioni e giardini di una qualche festa più lontana. È una strana gelosia: ma il poeta stesso non si trova mai abbastanza vicino al suo oggetto. Il pino, il fiume, la riva fiorita davanti a lui, non gli appaiono come natura. La natura è sempre altrove. Questo o quell'aspetto sono soltanto il contorno, il riflesso e l'eco lontana del trionfo che è passato dappresso, e che è ora al suo massimo splendore e tripudio forse nei campi vicini o, se vi trovate lì nei campi, nei boschi adiacenti, allora. L'aspetto che avete di fronte vi darà soltanto quel senso di pace e quiete che tiene dietro a un fastoso corteo che sia appena passato. Che splendida distanza, quali recessi di ineffabile pompa e leggiadria in un tramonto! Ma chi può andare dove essi sono o posare la mano o calcare il piede su di essi? E tra gli uomini e le donne accade come tra i silenziosi alberi: sempre un'allusività, un'assenza, mai presenza e pieno appagamento. E che mai si può afferrare la bellezza? Resta essa dunque inaccessibile sia nelle persone che nei paesaggi? L'innamorato accettato e diventato fidanzato ha perduto quel più acerbo fascino della sua ragazza nel momento in cui lei lo ha accettato. Lei era un cielo fintanto che lui la inseguiva come stella: ma non può più essere un cielo se è scesa fino a lui.

Che cosa diremo di questa onnipresente apparenza di quel primo impulso proiettivo, di questo lusingare e frapporre intralci a tanti esseri pur pieni di buona volontà? Non dobbiamo supporre che vi sia in qualche parte dell'universo una sottile perfidia e derisione? E non saremmo obbligati a un serio risentimento per questa manipolazione che si fa di noi? Non siamo allora che degli sciocchi solleticati, degli zimbelli della natura? Un solo sguardo all'aspetto del cielo e della terra fa cessare ogni nostra petulanza e ci suggerisce convinzioni più sagge. Per chi vuol capire, la natura si converte in una vasta promessa, né può essere spiegata con avventatezza. Il suo segreto resta non rivelato. Molti e molti Edipi arrivano: e ognuno ha l'intero mistero che gli brulica nel cervello. Ma, ahimè, il sortilegio stesso gli ha tolto ogni bravura; neanche una sillaba egli riesce a formulare sulle sue labbra. La possente orbita della natura s'inarca come il tenero arcobaleno nel cielo profondo: ma nessun'ala di arcangelo è stata mai così forte da poterla seguire e venir poi a riferire dell'altra metà della curva. Ma appare altresì evidente che i nostri atti sono orientati e disposti verso conclusioni più grandi di quelle che noi avevamo progettato. Siamo scortati da ogni lato, per tutta la vita, da agenti spirituali, e ci attende una benigna volontà. Non possiamo metterci a far battibecchi con la natura, o trattare con lei così come facciamo con le persone. Se misuriamo le nostre forze con le sue, facilmente ci rendiamo conto di essere soltanto come un trastullo nelle mani di un insormontabile destino. Ma se, invece di identificare noi stessi con l'opera, avvertissimo che dentro di noi scorre l'anima stessa di chi ha prodotto quest'opera, scopriremmo allora che, per la prima volta, la pace del mattino è venuta ad abitare nei nostri cuori e che le insondabili forze della gravità e della chimica e, al di sopra di esse, della vita, preesistono dentro di noi nella loro forma più alta.

Quel disagio che il pensiero della nostra fragilità all'interno della catena delle cause genera in noi, deriva dal nostro dar troppa importanza a una delle condizioni della natura, cioè al movimento. Ma il freno non è mai lontano dalla ruota. Ogni volta che l'impulso eccede, la stasi o l'identità introducono la loro compensazione. Dovunque, non c'è campo in cui non cresca la prunella o l'erba medica. Dopo ogni nostra giornata di insensatezze ci addormentiamo sui fumi e le furie di quelle ore; e anche se restiamo sempre legati ai particolari e spesso ne diventiamo anzi schiavi, rechiamo pur sempre in noi, in ogni nostra esperienza, le innate leggi universali. Le quali, mentre esistono nella nostra mente come idee, stanno intorno a noi incorporate per sempre nella natura: come una sanità sempre presente per additare e curare l'insania umana. La schiavitù ai particolari si rivela in tante nostre sciocche attese. Crediamo di anticipare una nuova era con l'invenzione di una locomotiva o di un pallone; e la nuova macchina porta con sé i vecchi freni. Dicono che con l'elettromagnetismo l'insalata verrà su dal seme mentre il vostro pollo s'arrostisce per il pranzo: questo è un simbolo dei nostri moderni scopi e sforzi, del nostro condensare e accelerare ogni cosa. Ma non se ne guadagna nulla: la natura non può essere imbrogliata; la vita dell'uomo dura soltanto settanta insalate, lenta o rapida che sia la loro crescita. In questi freni e in queste impossibilità troviamo tuttavia un nostro vantaggio, non meno che negli impulsi. La vittoria cada dove vuole, noi saremo sempre da quella parte. E questa consapevolezza, da parte nostra, di attraversare l'intera scala dell'essere, dal centro ai poli della natura, e il fatto che in ogni circostanza vi sia sempre per noi qualche buòna posta, danno poi alla morte quella luce di sublimità che filosofia e religione si sono sforzate di esprimere, benché in maniera troppo esterna e letterale, nella diffusa dottrina della immortalità dell'anima. La realtà è più eccelsa di quanto se ne possa riferire. A quel punto, non v'è più né guasto, né discontinuità, né palla morta. La divina circolazione non ha soste né indugi. La natura è l'incarnazione di un pensiero, e ritorna a essere pensiero, così come il ghiaccio ridiventa acqua e gas. Il mondo è un precipitato della mente, e la sua volatile essenza tende sempre a rifluire nella condizione del pensiero libero. Da qui la virtù e l'incidenza che gli oggetti della natura, siano essi inorganici o organici, esercitano sulla mente. L'uomo imprigionato, l'uomo cristallizzato, l'uomo vegetativo parla infine all'uomo impersonato. Quel potere che non si cura della quantità, che fa sia del tutto che della particella il suo uguale canale, presta il suo sorriso al mattino e distilla la sua essenza in ciascuna goccia di pioggia. Ogni momento, ogni oggetto ci insegnano qualcosa: giacché la saggezza è infusa dentro ogni forma. È stata versata in noi come sangue; ci agita come pena e dolore; si insinua in noi come piacere; ci avvolge in giorni opachi e malinconici o in giorni di serena laboriosità; e noi non ne indoviniamo l'essenza se non dopo molto tempo.





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NOTE




1) «I campi sono per me traboccanti di fantasie, i boschi al mattino sono pieni d'angeli»: così Emerson annota nel suo Journal (giugno 1840). E nelle sue conferenze, e dopo la pubblicazione, nel 1836, del fondamentale e articolato Nature, ancora vorrà ritornare, in questo più breve saggio, su un argomento - quello della Natura, appunto -che si è configurato ormai come la cifra stessa, centrale, del suo «messaggio». I versi che fanno da «motto» a questo e agli altri saggi sono molto spesso di Emerson stesso, per il quale la poesia restò sempre «espressione» parallela al pensiero, anzi ad esso intrinseca.
2) Erano così chiamati i giorni del solstizio d'inverno, caratterizzati dalla bonaccia, in cui gli alcioni nidificano e covano.
3) Indian summer: la nostra «estate di San Martino».
4) Uriele («fiamma di Dio»), uno dei sette arcangeli della tradizione rabbinica. Nel Paradiso perduto di Milton è lo spirito che governa il sole («Regent of the Sun»).
5) Il fiume Concord, che bagna l'omonima città, dove Emerson si era stabilito.
6) In italiano nel testo.
7) A Pafo, nell'isola di Cipro, sorgeva un grande tempio dedicato alla dea Venere. Ctesifonte era una delle capitali dell'antico Impero persiano.
8) Costituiscono la catena meridionale del sistema montuoso degli Appalachi.
9) La bellezza della Valle di Tempe, in Tessaglia, nella Grecia settentrionale, diventò un topos, frequentemente citato, già negli scrittori classici.
10) La Campagna romana, allora paludosa e solitaria, era, come si sa, uno dei luoghi più frequentati dall'immaginario romantico.
11) Forme, cioè, lambiccate e «artificiose»: dal titolo del romanzo Euphues dell'elisabettiano John Lyly (1579).
12) Dottrina elaborata da F. A. Mesmer (1734-1815), secondo la quale da ogni corpo emanano fluidi magnetici dotati di particolari energie.
13) Teoria elaborata da F. J. GaI! e J. C. Spurzheim, secondo la quale le caratteristiche psichiche vanno localizzate in determinate parti del cervello. Emerson l'avversò come meccanicistica e «materialistica».
14) Tutti nomi di divinità della natura e della vegetazione.
15) Benjamin Franklin è il celebre inventore, scrittore e uomo politico del Settecento americano; John Dalton formulò la prima ipotesi, in senso scientifico, di strutturazione atomica della natura (1804); Humphrey Davy (1778-1829) inventò la lampada ad arco; Joseph Black (1728-1799) studiò le proprietà dei gas.
16) Il mistico tedesco Jacob Boehme (1575-1624); George Fox (1624- 1691) diede vita, in Inghilterra, al quaccherismo, che avrà larga diffusione anche in America.
17) James Naylor (1618-1660) portò ad estreme conseguenze i principi del quaccherismo sulla «illuminazione» interiore, fino a ritenersi una nuova incarnazione di Cristo stesso. Fu condannato per blasfemia.